Un post di Gianfranco Bertagni "Cosa significa che Gesù nasce? Che senso ha questo evento per l’anima? È un momento storico, accaduto tanto tempo fa? O è qualcosa in più? O ha una portata trans-storica, cosmica, interiore?
Le parole decisive da cui partire le incontriamo nella Lettera ai Filippesi, dove leggiamo: “Pur essendo di natura divina, […] spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo […], umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte”. Soprattutto ciò che è fondamentale qui è che la kenosi del Cristo (appunto il suo svuotamento, il suo annichilimento, la spoliazione di sé) non è l’uscita dalla sua divinità. È anzi la realizzazione piena della sua consustanzialità con la natura del Padre. La kenosi è fin dalla fondazione delle cose: e allora Gesù si incarna per realizzare la sua natura primordiale. Come scrive Masao Abe nel suo testo vertiginoso sul parallelo tra la natura kenotica di Cristo e il vuoto buddhista: “Il Figlio di Dio diventa carne proprio perché il Figlio di Dio è originariamente autosvuotantesi”. Appunto: originariamente. Ma la frase della Lettera ai Filippesi è abissale e da meditare intensamente nella comunione che essa presenta tra: umiltà, spoliazione, morte, servitù, obbedienza, divino. Non solo una via del divino (il divino del Cristo) costituita da queste rifrazioni così scandalose per un dio, ma soprattutto una via al divino - ovvero la divinizzazione della mia anima - che dalle stesse rifrazioni è necessario venga attraversata e uniformata. Come dice Simone Weil, la Kenosi di Cristo (e di Dio) chiede la kenosi del mio io. Là dove il mio piccolo io sogna una (falsa) divinizzazione della mia persona costituita dall’espansione dei suoi limiti fino all’illimitato (il satanismo delle libertà e potenza sfrenate e senza confini), la kenosi dell’io che conduce a quella divinizzazione di cui parla la vita di Gesù è lo svincolarsi da quel sogno. E in questa kenosi il mio io non trova la divinizzazione tanto sognata dallo psicologico e dal sociale che mi abitano: trova anzi la sua morte. E nella morte dell’io, si manifesta la divinizzazione e l’entrata nella realtà. Non solo la realtà attorno a me, così tanto sconosciuta ai miei occhi rispetto al mio continuo specchiarmi; ma anche la realtà in me, nascosta dal mio guardarmi dal piano egoico, invece che dallo sguardo pulito dalla luce dell’umiltà. Umiltà che possiamo provvisoriamente definire in breve così: smetterla di usare tutto ciò che mi è alla portata (dentro e fuori di me) per espandermi. Ma questo gusto per la dismissione della mia espansione può nascere solo se intercetto dentro di me quello spazio profondo, ancora vergine, da cui può sorgere il Cristo. Come scrive Pablo d’Ors nel suo commentario mistico ai Vangeli: “Tutti abbiamo una Vergine dentro: un territorio interiore nel quale ancora e quasi inesplicabilmente perdura l’innocenza”. Questo sì, è il binomio paradossale nel quale si articola la via cristiana: la verginità del fondo dell’anima da una parte e la sua maternità spirituale dall’altra, lo svuotamento dell’io e la manifestazione da esso dell’illuminazione al Sé. C’è un termine di cui odiernamente spesso si abusa tanto: spiritualità. Ecco, questo è ciò che distingue una via spirituale da ciò che non lo è, spesso da ciò che è il suo esatto contrario: il lasciarmi fare da questa zona vergine, l’acconsentire a questa dinamica, che è dinamica di svuotamento, di perdita dell’io, di umiliazione del suo funzionamento all’insegna del suo dominio. Via altra, tanto altra rispetto invece a qualsiasi pratica, disciplina, percorso volti all’espansione, alla costruzione della mia salvezza, nel sogno di una resurrezione all’Assoluto senza la morte di ciò che in me vuole comandare: le varie filosofie del “crea il tuo destino”, “credi in te stesso”, “costruisci la realtà con il tuo pensiero positivo”, “crescita personale”, …. Giovanni della Croce riassume il tutto in poche parole decisive: “Per giungere a ciò che non sei, devi passare per dove non sei”. L’immagine è dalla Natività di Giotto nella Cappella degli Scrovegni. La Natività con gli sguardi più intensi della storia: un Gesù appena nato ma con occhi da adulto pienamente presente a chi guarda; una inserviente i cui occhi sembrano di un monaco bizantino in contemplazione; ma soprattutto una Madonna con occhi tanto simili a quello sguardo di Nirvana con il quale veniva rappresentato il Buddha nell’arte greco-buddhista nel suo periodo di massima espressione." Di Gianfranco Bertagni - www.gianfrancobertagni.it
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Settembre 2024
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